KRITICA SCULTURA


ANNO 2016 - ONDE D’ACCIAIO di Alessandra Migliorati

Tessere è qualcosa di antico che ha a che fare con l’avere un corpo. Originariamente era necessità di coprirsi, ma il coprire non poteva celare il contenuto e quindi è divenuto dichiarazione e racconto e il racconto si è esteso oltre i limiti fisici del corpo in tappeti e arazzi sconfinando infine in metafora esistenziale. Tessere trame, tessere un legame, tessere appunto una storia, breve tratto di un’esistenza o una vita intera, secondo un agire paziente e meticoloso nella scelta del disegno, dei fili, dell’ordito e dei nodi per ogni “a capo” o chiusura. E tutto ciò nella sua ritualità ha un che di stregonesco e sacrale, per il suo potere di trasformare qualcosa di informe, fragile e confuso come disiecta membra in un tutto compiuto che solo la forza di una forbice potente, del fuoco o dello scorrere del tempo potrà distruggere. Chiuso l’ultimo nodo, il tessuto sarà superficie di sogno su cui adagiarsi, ricordare o camminare, sarà vestire coda di pavone o protettiva cotta di maglia, sarà comunque sortilegio di un racconto che si ripete, muto di parole, nel gesto, nella forma e nel colore.

Su questa pluralità di valenze metaforiche e fisiche del tessere Valeria Scuteri trova da sempre l’origine e la fine della sua ricerca artistica iscrivendosi a pieno titolo fra le protagoniste di quella Fiber art che una storiografia non troppo recente riconosce come pratica a sé di peculiarità tutta femminile, appartenendo ago, telaio e filo, per consuetudine millenaria, alla lunga discendenza di Eva. Penelope tesse l’inganno dell’attesa, fare e disfare è nel suo disegno. Valeria materializza e ordina in forma i fili che affettivamente ogni donna, per ostinazione o fatalità, perniciosamente o amorevolmente, ha legati a sé.

Onde d’acciaio, opera inedita generosamente pensata per Perugia e questa circostanza, ha stratificazioni di significato complesse che dall’autobiografico discendono nella profondità dell’essere donna in una molteplice dimensione sociale e affettiva, nella verticalità della storia che è memoria e attualità condivisa di pratiche d’origine ancestrale, dell’essere donna che è anche cliché di stereotipo femminile atteso e disatteso. Ecco, quindi, il racconto ricamato di parole e segni, tessuto d’acciaio e mano robusta, segmentato in narrazioni più brevi su cui riflettere trova la sua valenza metaforica più aderente in quanto, appunto, “riflesso” plurimo di accadimenti ed emozioni del complesso mondo femminile per intero. Non vi è inizio reale, né fine se non forse nell’“autoritratto” (La Terra) intorno alla quale la storia nei suoi altri elementi ruota violando l’eliocentrismo che governa gli astri. Terra come solidità, concretezza, pazienza nell’attendere al cambio delle stagioni, al nutrire i propri frutti, come pietra angolare su cui edificare, ma anche come sete nel bisogno di acqua per generare, come fatica, talvolta, a camminare sulla propria nuda terra. Dove la Terra placa la propria ansia d’essere fatto concreto e finito è il Mare. Mutevole, imprevedibile, segreto nella vita celata nelle sue profondità come in un mondo parallelo, rovescio liquido della terra e del cielo, quanto invitante al viaggio senza meta quando si perde alla vista l’orizzonte del suo confine. Sinonimo di Oceano era agli emigranti italiani verso l’America il termine Speranza e la tela di Impronte è la stessa con il marchio “USA” che uno zio immigrato inviò nei pacchi regalo destinati ai parenti rimasti in Italia. Sulla tela piedi nudi, scarpette da ballo, tacchi a spillo e scarpe chiodate segnano i passi di una donna intorno al proprio amato mentre risuona il mantra ricamato con fare incerto “ho camminato a piedi nudi/per non ferirti/con scarpette da ballo/ per seguire i tuoi ritmi/ con tacchi a spillo/ per sedurti/ con scarpe chiodate/per farmi ascoltare”. SONO STANCA è verità che ogni donna dice a se’ quando l’amato, come un progetto di vita, sembra proprio non voler rispondere alla propria docile e volenterosa seduzione. Scarpe buone per camminare con passo di fata, bambina o regina, tuttavia, attendono all’angolo la ripartenza e, chissà, forse anche l’ebbrezza leggera di un giro di valzer.

 

ANNO 2015 - LA FIBER ART DI VALERIA SCUTERI di Claudia Bottini

Filo per filo; la trama in funzione dell’ordito; l’ordito ragione della trama e come uno senza l’altra non riesce a formare il tessuto, così l’altra dal primo alla forza e il sostegno.

(Maria Corsini, L’ordito e la trama: radiografia di un matrimonio, 1953)

Valeria Scuteri intessendo ad un telaio sperimentale fili di ferro, acciaio e rame, o manipolando lane e altri materiali con l’uncinetto, il lavoro a maglia o il libero intreccio, raccoglie le antiche tradizioni, rielaborandole alla luce della contemporaneità. Una delle più famose Fiber Artist italiane, nelle tele, nei disegni, nelle sculture tessili e quelle performative, sviluppa una poetica che affronta le più profonde tematiche dell’esistenza umana.

Per la mostra e in omaggio al tema di San Valentino, Valeria presenta insieme alle sue opere più famose, come Innamorati-ll bacio o le Rondini, nuove opere-installazioni che trasformano lo spazio e ci raccontano, accostando luminosità e oscurità, vuoto e sostanza, la sua poetica amorosa: Primo appuntamento, Sua Maestà il Melograno, Ritorno a casa-Cammino condiviso, Inutile orizzonte.

Il matrimonio della figlia diventa fonte d’ispirazione per l’evanescente abito bianco “Susanna” da cui prende il nome.

L’artista torinese crea installazioni entro le quali addentrarsi, tra tessiture e invenzioni, lirismo e raffinate tecniche sperimentali. Nelle sue mani la struttura basilare di trama e ordito esprime “come nell’amore” la tensione degli opposti ed assume una dimensione che va al di là del semplice tessuto. Le trame, le storie d’amore, nascono dalla casualità degli incontri e solo la nostra razionalità ci fa tessere un lungo percorso insieme.

La Scuteri agisce sulla sensibilità delle persone ed è capace di promuovere in loro un rinnovamento, agendo contemporaneamente sul piano dell’etica come su quello dell’estetica.

Opere dove la tessitura è viva e densa di significato, dove tutto è possibile al fine di creare un nuovo impatto visivo e tattile.

La Fiber Art della Scuteri è un’esplosione di entusiasmo e creatività, moderna Aracne dimostra che questa antica tecnica può continuare a dare un contributo importante all’espressione umana.

Come già ho avuto modo di scrivere nel catalogo Armonie d’Arte del 20131, in occasione della mostra Vestiti d’Arte che ho curato a Montefalco, dove partecipò anche Valeria, la Fiber Art é un nuovo modo di interpretare la realtà e l’estetica, nata nei primi anni del Novecento, quando gli artisti si slegano da tavolozza e scalpello per sperimentare “la fibra”, lavorata con o senza telaio.

Il punto di partenza di queste ricerche artistiche è costituito da un’antichissima pratica artigianale, prerogativa della sfera femminile: la tessitura. La Fiber Art sviluppa - andando oltre il concetto di “utilità” solitamente associato a questo tipo di produzione - quei fermenti rivoluzionari, di rottura nei confronti della tradizionale disciplina tessile. Ci riferiamo, in particolare, all’importante ruolo svolto dalle tessitrici attive presso il Laboratorio Tessile del Bauhaus e all’eredità che esse hanno tramandato. La sensibilità poetica, la conoscenza dei materiali, la coniugazione dell’abilità dell’artista e dell’artigiano riportano il lavoro di Valeria Scuteri a quell’intuizione che distinse le artiste della Bauhaus. La tedesca Gunta Stölzl ha scritto: «Perché la tessitura è un tutto estetico, una composizione di forma, colore e materia in un’unica unità. Mentre agli inizi della Bauhaus si era partiti da principi figurativi - per così dire un’ immagine di lana [...] oggi sappiamo che il tessuto è un oggetto d’uso ed è una superficie che ha in sé elementi statici, dinamici, plastici, funzionali, costruttivi e spaziali.»2 Furono poi gli Stati Uniti ad accogliere la maggior parte di queste rivoluzionarie tessitrici fuggite dall’Europa in seguito all’instaurarsi del regime nazista, le quali incisero profondamente sul progresso qualitativo ed estetico dei tessuti americani3.

Nel 1962, Jean Luçart, fondatore nel 1961 del Centre International de la Tapisserie Ancienne et Moderne, inaugura la prima mostra di Fiber Art a Losanna, una Biennale Internazionale che trasformandosi ospita ancora oggi opere di Fiber.

In Italia, all’inizio degli anni Novanta nascono alcune realtà culturali dedicate alla Fiber Art, come la rassegna annuale Miniartextil di Como, capace di proporre la migliore produzione artistica internazionale nell’ambito della Textile Art o Fiber Art. In Piemonte, altra regione industrializzata e culla dell’Arte Povera e precisamente a Chieri, Torino, dal 1998 al 2004 è stata organizzata la Biennale di Fiber Art “Trame d’Autore", dove Valeria Scuteri partecipa a più edizioni.

Risale al 2000 la prima esposizione Off Loom, a cura di Bianca Cimiotta Lami e Lydia Predominato a Roma, nelle sale del San Michele a Ripa, per cercare di diffonde la cultura tessile anche nel mondo istituzionale. Dopo quindici anni Off Loom ritorna a Roma, al MAT - Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, per fare il punto sullo stato della Fiber art in Italia, finalmente in un museo, dopo anni di grave ritardo per il nostro paese4.

L’Umbria con la sua importante tradizione tessile, vede ad Amelia in provincia di Terni, la sua prima Biennale d’Arte Tessile Contemporanea, dal 2002 al 2006, dove opere d’arte contemporanea sono create con l’antico telaio. Non dimentichiamo la Biennale di Gubbio a cura di Enrico Crispolti, nel 1976, che presentò l‘allora giovane fiber artist triestina Lydia Predominato.

Legata invece alle avanguardie storiche, la Wearable Art, si riferisce ad una serie di creazioni, in modo particolare abiti, accessori e gioielli, realizzati appositamente per essere "potenzialmente” indossati. Trova la sua iniziale espressione tra surrealismo, futurismo e dadaismo, quando gli artisti, ribellandosi alla tradizione dei classici materiali, indagano altri linguaggi, scoprendo il medium tessile. Qualora nella realizzazione di tali opere d’arte da indossare vengano utilizzati procedimenti, più o meno sperimentali e liberi, di intreccio di fibre e materiali vari, l’Art Wear può essere ricondotta all’interno del più vasto campo della Fiber Art. Rientrano quindi in quest’ambito, l’elegante vestito nero con ricami ad uncinetto del Primo appuntamento di questa mostra, o le scarpette con il tacco con il melograno, simbolo di abbondanza e fertilità, che nei dipinti del Rinascimento era per il colore rosso, anticipatore della passione, in mano a Gesù bambino. Un martirio però fecondo, frutto dell’amore infinito di Dio verso gli uomini.

In alto le Rondini, simbolo di rinascita “aiutano i sogni degli innamorati a prendere il volo”, scrive Valeria. Le rondini messaggere d’amore, a lungo osservate dall’artista nei suoi soggiorni estivi in Calabria, la sua terra d’origine, riposano per un momento sul lungo filo, per poi tornare all’accogliente nido. Il nido di pascoliana memoria, protegge dalla solitudine e dalle incomprensioni del mondo esterno e diventa, grazie alla Fiber Art vezzosa borsetta. Oltre alla borsa-nido rifugio per le rondini, in mostra anche la borsa-libro inutile orizzonte che raccoglie i nomi delle molte coppie famose per il loro triste e tormentato amore: Dalila e Sansone, Otello e Desdemona, Paride e Elena, Tristano e Isotta, Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta, Paolo e Francesca, Renzo e Lucia, Lancillotto e Ginevra, Ulisse e Penelope, Amleto e Ofelia, Amore e Psiche, Enea e Didone, Apollo e Dafne, Orlando e Angelica, Ettore e Andromaca. Un libro di fili di metallo e poesia, prodotto dall’intreccio di saperi, di memorie, d’identità collettive.

La Fiber Art di Valeria Scuteri intreccia trame che formano il meraviglioso tessuto della vita e dell’amore.

È del 2008 Innamorati-Il bacio, figure evanescenti che si baciano nudi, spogliati dallo sguardo che li percorre, nell’assenza dei loro corpi. Ci si accorge guardandoli, che uno è base e sostegno dell’altro, “come nell’amore”: filo per filo, intrecciati uno con l'altro senza soluzione di continuità, fino all’eternità.

1 _ Armonie d’Arte, catalogo delle mostre (lI Sacro e il Profano, Museo civico di San Francesco; Vestiti d’arte, Chiostro di Sant'Agostino, Montefalco, Perugia, 2 giugno-14 luglio 2013, testi di Claudia Bottini e Alessia Vergari), pp. 28-49. In questa occasione Valeria Scuteri espone per la prima volta in Umbria insieme a quattro artiste contemporanee interpretando il “vestito", punto di partenza della loro espressione artistica.

2 _ Gunta Stölzl da «Offser Buch und Verbekunst», Quaderno n°7, 1926.

3 _ Recente è la mostra Fiber: sculpture. 7960-Present, tenutasi nel 2014 presso l’Institute of Contemporary Art di Boston che ha ripercorso la storia della Fiber Art scultorea.

4 _ Marta Picciau, Bianca Lami, Maristella Margozzi, Lydia Predominato, a cura di, Off Loom, Fiber Art Arte fuori dal telaio, catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, gennaio-aprile 2015), Mantova 2015.

Da questo ricco catalogo antologico sono state tratte le più importanti notizie storiche riportate in quest’articolo.

 

ANNO 2011-2012 - SAPRA’ PER AMORE RICOMPORSI di Paola Goretti

Non vadano indossati i corpi dentro a questi abiti, che abiti non sono, no. Ma filamenti di medusa arcaica, tentacoli tentacolari, pinnacoli sventaglianti di sirena affiorata, da chissà dove rovine e flutti in tessitura, relitti incagliati dal remotismo riaffiorati per incatenamento. Non vadano inguainati, arginati, argimentati. Non vadano appesi a grucce degli armadi o a quelle del tempio della carne che essi non vogliono carne ma anime, onde. Onde accartocciate da accartocciare sullo scoglio, ad asciugare tra la salsedine. Sono abiti bambù, abiti corteccia, abiti libro antico, abiti ulivo, abiti diluvio, conchiglia, sibilla, primavera. Apparizioni e squame dei primordi. Sono materia invertebrata cucita con le ostriche. Con la seta del mare come amante. Vestiti interiori del secolare immoto, filamenti azzurrognoli di riverbero argentato, avvitamenti. Rovine uscite da galeoni inabissati, principi del flusso e del fluire, ritorni imperpetui della risacca, vuoti di eco e ninfe dei primordi. Limoni e arance. Sono rituali della Frigia, in forma di capitello, grappoli d’acqua, bolle. Garze di oceano oltremarino. In immaginazione di grecerìa perpetua, pezzi di sogno da un presente remotissimo. Relitti slabbrati, a pezzi.

La gioia sbuca dagli occhi dei pesci come una rosa e si attacca alle sponde come una cosa viva. Sirenanti per forma acquina, trillanti senza scompenso. Sono abiti luce. Vivono sotto le fondamenta, ancora più in basso, dove crescono i muschi dei santuari. Dove piove l’acqua liscia delle cisterne, dove l’erba di pietra dorme sul pavimento. Anche i composti del maschile sembrano scudi di palombaro, liturgie di pinnacoli incrostati a scafandro, armature di antichi eroi, carcasse di millenni fa. Mischia di armigeri sulle punte, balletto sottomarino: la superficie perpetua sotto le onde, popoli e popoli pieni di onde, rituali di genti ammaestrate sotto le onde, popoli e popoli pieni d onde, ritorni in patria. Sotto le onde della pelle, squame. Canto di telaio e memoriale dell’epica narrante.

Cantami, o Diva, la dolce canna del sole è intrappolata e brilla. Il sole è già stato qui, li ha già asciugati nei pomeriggi di luglio con l’afa della canicola e l’immenso meridiano di ogni apparizione. Il sole ha già compiuto la sua opera inconsumabile in fiume d’acqua viva. Sommativa bellissima di ciò che esiste ed è già trama, vivente ora colante della bellezza che non ha fine. Declina l’oro dei tramonti, declinano i diamanti, declinano i naviganti. Ma il memoriale del perduto resta, resta il bagliore di ciò che è stato e non è più, resta il colore della scintilla, la spremitura dell’argilla dentro le rive degli annunci. Resta per sempre cosa santa che trattiene la gioia. L’inno alla gioia. Ancora. Senza lacrime, senza peso.

Sapranno per amore ricomporsi. Restituirsi. Il tempo a venire è l’avvenire in mare aperto dove ogni cosa ardente ha l’anima scucita, sdrucita, impazzita d’amore, dimenticata, offesa, incagliata, incantata. Ecco le amorevoli mani in aperto mare, gli amorevoli guanti di velluto di seta. Lo slancio soccorrente di ogni cucitura, la guarigione. Eccoli. Eccoli ancora, nel loro compiersi, Eccoli. Sono le cose che restano. Le cose del ritorno. C’è anche lui. Saprà per amore ricomporsi. La seppia meridiana sta già passando come la sua ondalunga sotto la cenere.

 

ANNO 2009 - INTRECCI DI FILI E SOGNI di Anna Lea Santarcangeli

Il Luogo come mondo storico capace di suscitare emozioni ed ispirazioni artistiche diventa il tema d'elezione per le opere inserite in questa mostra di Valeria Scuteri. La visita a Wesserling e al suo parco ha generato lo scambio emotivo e culturale con questa città e l’Artista. La mediterraneità e la passionalità dell'animo ha incontrato lo spirito magico del Nord, caratterizzato dal grande legame tra natura e cultura.

Immergersi nella pace dell'oasi del giardino fiabesco ma quotidiano ha instaurato uno spirito rassicurante da cui è scaturito l'insieme degli "Anni verdi ", spensierata ragazzina che legge sul prato in posa leziosa e ingenua, l’Omaggio a Wesserling, “bambini sull'altalena libro e i “Due innamorati” che scambiandosi un bacio diventano vessillo d'amore primordiale incontaminato. La grande e ordinata distesa verde riprende la valenza di purezza di luogo e di sentimenti che alimentava i trattati d'arte e paesaggio del '700, trasformandosi in specchio elettivo di sentimenti e pulsioni umane. La tranquillità placa e rasserena la "tumultuosa" sensibilità dell'Artista.

I fili conduttori delle origini e delle due storie continuano a dialogare nella serie di sculture e installazioni riguardanti l'ambito "mediterraneo" della mostra. Ecco allora i “Panni stesi”, “Abitoulivo”, “Abitoginestra” e i vari oggetti accessori, intrisi di sensualità e metafora di femminilità seduttiva.

E ancora: sculture evocative di pathos e mitologia legate alla Magna Grecia che colloquiano con l'installazione “Mademoiselle”, concentrato voluttuoso di grazia femminile. Il desiderio di libertà, pace e bellezza spirituale lo si ritrova invece nel “Filo di rondini" in cui i leggiadri uccellini si tramutano in simbolo d'amore per eccellenza, rinchiudendo in sé forza e leggerezza. Non a caso le ritroviamo ai piedi della figura di donna degli “Innamorati” quasi in tal modo poterla far volare anch'essa. L'effetto di complessiva ariosità che scaturisce dalle opere di Valeria Scuteri non deve però trarre in inganno. La manipolazione del materiale d'intreccio non è mai casuale ma frutto di progettazione rigorosa, fatica fisica e partecipazione fortemente emotiva.

Ciò che ne scaturisce sono le superfici brillanti e senza peso che rendono di volta in volta questi oggetti magici e ricchi di storia esistenziale e specchio di condizione umana generale e femminile in particolare.

In ultima analisi rimane essenziale per l'Artista comunicare al mondo concetti meditati a lungo ed emozioni percepite per un attimo ma non per questo meno importanti; il tutto attraverso la potenza e la grandezza della propria Arte.

 

ANNO 2004 - LA COSA E’ “ALTRA” di Pino Mantovani

La cosa è “altra”, ovvero l’alterità si nomina “cosa”. Anche quando le attraversiamo o ci attraversano, le cose hanno ritmi d’esistenza e piani di consistenza differenti, perciò spesso scorrono via usando tangenze imprendibili, a volte invece, urtano e mettono in crisi la nostra orgogliosa impermeabilità.

Le cose in se non ci appartengono; semmai potrà valere l’opposto, che siano le cose a possederci: così si può immaginare che un percorso mantenga le tracce di tutti quelli che vi sono transitati (ben oltre la resistenza delle ultime impronte); che una roccia, come un genio protettore o malefico, presenzi tutto ciò che nel tempo accade ai suoi piedi, per sempre; che un gioiello passando di mano in mano, si carichi di tutte le storie che incrocia; che un ambiente memorizzi tutti i brusii che vi stagnano in definitivo palinsesto.

Noi stessi cerchiamo di guadagnare una reificazione: per esempio, dall’inizio abbiamo puntato a mutarci in terra, in pietra, in diamante o metallo, in aria, per lasciare tracce meno labili di quelle cui affidiamo la nostra quotidianità, segni oggettivi che non siamo allettati minacciati dagli accidenti e dalle emozioni. Perciò abbiamo messo a punto alcuni artifici che si rifanno a processi naturali: il calco che si conforma dall’esterno, e la sostituzione molecolare che ricostruisce dall’interno. Nell’uno e nell’altro caso ciò che muta è, innanzitutto, la consistenza materiale, senza che si alteri l’identità manifesta. Dei procedimenti, uno è d’ordine quantitativo, l’altro qualitativo (se i due termini riescono a rendere almeno in schema la specie dell’artificio). Tra i modi più efficaci per una ricostruzione dall’interno, o qualitativa, c’è la tessitura, in tutte le sue forme e con i materiali più diversi. Non è un caso che i miti della creazione (la creazione originaria e quella che tentiamo di rilanciare assumendo la parte dei creatori) siano elaborati intorno a questi modelli, e che, dei due, il primo sia “maschile”, ginnico e faticoso, il secondo “femminile”, analitico e paziente; che il primo si fondi su un’alterazione traumatica, il secondo sulla continuità, nella quale la ripetizione prevalente innesti la variante, inneschi l’errore.

Tra le cose, c’è però una specie che, per aver condiviso intimamente il nostro quotidiano, per questo possiede una capacità di insinuazione e provocazione, un’ambiguità singolari: è l’abito, che l’etimo riconduce al possesso, protratto attivo e passivo. L’abito è nuova pelle (ognuno di noi sa cosa vuol dire “indossare” le scarpe, il cappello, la biancheria intima, i calzoni, la giacca; e la misura dell’identificazione ci vien data dal trauma dello svestirsene), ma è anche la figura che consapevolmente assumiamo perché ci rappresenti (perfino nella nostra laica temperie, ognuno di noi sa l’efficacia simbolica perfino liturgica dell’abito). Senza che, però, si perda la natura e il sentore della perfetta aderenza, come dimostra il fatto che non sono rari i casi di repulsione a utilizzare di nuovo una pelle che ha così intimamente condiviso un’altra esistenza e un altro progetto di immagine.

Dove l’intimità si intreccia con la liturgia, dove il segno è così aderente da essere identico a ciò cui somiglia, è proprio lì che Valeria Scuteri - l’artista che suggerisce queste sparse, spero non inutili considerazioni - agisce; e lo fa, come è accaduto alle nostre latitudini nei linguaggi alti forse solo a cominciare dalle cosiddette ”avanguardie”, trasferendo il suo impegno dall’abito metaforico a quello metonimico, senza per questo rinunciare alla fondamentale valenza sintetica e simbolica. Senza che il controllo della forma sia meno rigoroso, in questa fase del lavoro, di quando le tracce erano lucidamente volute e cercate sia attraverso i mezzi tradizionali della raffigurazione (pittura e disegno), sia attraverso gli strumenti mentali della progettazione. Direi anzi che l’artificio si è ulteriormente affinato, non solo in quanto costretto a governare materiali resistenti con azione attenta e sapiente, ma soprattutto per la caduta di alibi rappresentativi, riguadagnati semmai al termine di un processo di presentazione; come se - certe considerazioni della stessa Scuteri mi danno ragione - l’abito riuscisse a meritare la forma, vanificato il corpo da vestire, solo a forza di una rigorosissima elaborazione che non è superficiale bensì strutturale, tettonica, autoportante.

Ecco, allora, che un punto fermo nel lavoro attuale di Valeria, anche da una prospettiva concettuale, diventa l’abito ispirato da una pala di ficodindia ridotta a “scheletro di nervature e intrecci”, rimasta sulla battigia a testimoniare una ricchezza sontuosa, prosciugata di tutta la ciccia. E un altro punto fermo, l’abito “dall’interno” che rende omaggio alle strutture innervate del gotico e del barocco chierese: più che mai architettate, le due forme, senza dover nulla concedere alla funzione, pura tessitura nel libero spazio.

A queste strutture Valeria Scuteri arriva non dal progetto razionale, ma dal versante “amoroso”. L'abito come l'abitare c'entrano, per lei, con il dono, tanto per chi conceda quanto per chi riceva. Il dono con dignità e merito: l'essere degno il meritare, il merito della dignità, la dignità del merito.

Un amico artista - di cui avverto sempre più la perdita, che aveva da giovane praticato l'arte dell’abito, e per tutta la vita l’arte dell’abitare - mi diceva che l’essenza della grande sartoria sta nel tessuto e nel taglio: il tessuto ha una sua autonoma qualità, e la scelta avviene sull’estensione e sulla piega; il taglio ha a che fare con l'architettura, la modularità e il ritmo spaziale commisurato al corpo.

Ritrovo i due livelli nella vicenda creativa di Valeria, da che ha intrapreso la nuova avventura: il primo tocca la scoperta della tessitura (svuotato dal corpo, l’abito regredisce a tessuto, torna pezza; l'assenza del corpo è addirittura retorizzata dal dover essere, l’abito, sostenuto da una gruccia); il secondo guadagna l’immagine del corpo sotteso all’abito, torna ad appartenere ad un vivente, anzi è il segno forte di una vitalità riconquistata, in 10 quella dimensione mitica che, dall’inizio, abbiamo identificato con la ”cosa”.

 

ANNO 2004 - MODERNA PENELOPE di Cesare Roccati

Valeria Scuteri è una donna schiva, quasi timida, che non ama mettersi in mostra. L’ho conosciuta all’ Imbiancheria del Vajro in occasione della IV Biennale chierese di Fiber Art. Seduta su una panchina guardava i visitatori che, ammirati, guardavano la sua opera: una installazione con tre - quattro paia di scarpe e una borsetta, rigorosamente tessute a mano, appoggiate su un vecchio scaffale. Un’opera dal titolo apparentemente classicheggiante (Dall’ horror vacui alla consapevolezza) ma di sublime poesia. Un grido di pace nella nuova stagione del grande orrore delle guerre.

Qualche giorno dopo, poi, ho rivisto Valeria Scuteri nel suo studio moncalierese: un’antica sacrestia di una chiesa (Santa Croce) innervata nel cuore storico della città, un labirinto di piccole stanze che si rincorrono su due piani come nel castello di Kafka. E lì, come nel Sentiero dei nidi di ragno di Calvino, sono racchiusi i segreti di questa donna - artista che ha parecchio da dire agli uomini di questo tempo. Ci sono disegni dettati da un segno sicuro e rigoroso. Ci sono tanti nudi (per lo più maschili) sospesi nel tempo e in uno spazio sensuale e rarefatto, quasi dell’anima, oscillanti tra Caravaggio e Bacon. Ci sono le opere del suggestivo ciclo degli “abbracci”. Ci sono grandi ritratti, ondeggianti tra l’espressionismo e il concettuale, segnati da un’esplosione di colori sapientemente trattenuti, come si conviene a un’artista che ha fatto della sua opera la ragione esistenziale fondante contro ogni qualsiasi forma di violenza dell’uomo sull’uomo.

Valeria Scuteri, senza volerlo, è una donna pavesiana. Come il cugino dei Mari del Sud è una persona taciturna, come lo è la gente della sua terra nativa, la Calabria, che nei secoli ha conosciuto tragedie e miseria (Cristo si è fermato a Eboli, ci ricordava Carlo Levi). Così, inevitabilmente, il dolore e la fatica segnano l'intera opera di quest’artista che da ragazza è emigrata al Nord per studiare pittura con i grandi maestri dell’Accademia Albertina, da Deabate a Martina a Scroppo.

Donna del Meridione, femminista ante litteram, Valeria Scuteri (alla quale recentemente la televisione tedesca di Stato ha dedicato un significativo spazio all’interno della trasmissione “Das Ende der Mama”) dipinge figure rarefatte che trasudano sempre una grande dignità e un’infinita volontà di riscatto. C’è in lei quasi un bisogno ossessivo di ricomporre le cose, di ridare continuamente una dignitosa grandezza alla gioia e al dolore, alla vita e alla morte. Emblematico il grande ritratto del padre pensato nel giorno della sua scomparsa. È il ritratto di un uomo che volta le spalle al mondo e affronta sereno il grande viaggio di una nuova vita. Anche il colore è sereno, un blu castigato, piuttosto che il verde, il giallo e l’arancione dei fichi d’India e delle albicocche che hanno colorato la tavolozza della sua infanzia.

Ma nello studio di Valeria Scuteri, dove dai vetri filtra una polvere millenaria, c’è anche un laboratorio, simile a un antro dei maghi orafi praghesi, con grandi telai di legno appesi alle pareti, sui quali il filo di ferro, lavorato con una maestria antica, assume la magia delle pietre preziose.

È la magia dell’arte, che diventa poesia quando è arte vera… Lì sono nate le opere esposte in questa mostra chierese, che hanno il sapore del mare, soprattutto quello di Riace, che Valeria Scuteri ha visto da ragazza, percorrendo spiagge deserte e metafisiche. Quel mare che, nel suo ventre, ha custodito per millenni pesci, velieri e quei giganteschi bronzi che sono tra le opere più belle mai prodotte dall’uomo. In questo senso questa mostra rappresenta una nuova svolta, una delle tante, nell’opera di questa artista taciturna che ogni giorno affida a un diario le sue intense emozioni. L’idea di queste nuove opere, riconducibili tutte concettualmente alla Fiber Art, e nata due anni fa in quel maledetto 11 settembre (ma trent’anni prima, nello stesso giorno, Pinochet aveva spento la grande speranza cilena di Allende) in cui due aerei del terrore distrussero a New York le Torri Gemelle seminando panico e morte, distruggendo la vita di migliaia di persone. Quel giorno Valeria Scuteri, moderna Penelope, decise di ritessere i fili della vita e della speranza, utilizzando l’unico linguaggio che conosce bene, quello dell’arte e della poesia. E, ancora una volta, i risultati sono davvero sorprendenti.

 

ANNO 2004 - VALERIA SCUTERI. LA CONSAPEVOLEZZA DI UN’ARTISTA AL TELAIO di Silvana Nota

La dignità, il riscatto della bellezza dall’abbrutimento della morte e del dolore, il tempo e la sua illusione, ma anche la consapevolezza della memoria che offre possibilità per nuovi approdi, rappresentano la centralità della poetica recente di Valeria Scuteri, nella cui opera s’insinua, con la costante di un suono cosmico di fondo, la presenza-assenza del mare.

Un mare epico, che fluisce intenso e mediterraneo tra le pieghe di questo ciclo ultimo, legando ogni pensiero, liberando confini, dando continuità come collante impercettibile ed essenziale al suo cammino d’artista, che giunge a questa fase creativa con coerente consequenzialità e con la scelta espressiva della fiber art.

L’arte della fibra - che ha visto gli artisti, dalle avanguardie in poi, ma in special modo dopo gli anni Sessanta, apprendere le tecniche degli artigiani per farle loro e creare opere fortemente sperimentali di arte pura, totalmente svincolate dall’artigianato stesso a cui avevano attinto - si rivela un perfetto medium creativo per la sensibilità quest’artista silenziosa e profonda, che da sempre, accanto alla pittura e alla scultura, pratica questa via d’espressione fino a qualche anno fa quasi sconosciuta in Italia, perché fenomeno soprattutto nord europeo e statunitense.

Pioniera dunque di innovative ricerche, al centro delle quali si pone lo studio di una tessibilità alternativa al servizio dell’arte, ottenuta con o senza l’ausilio telaio, Valeria Scuteri incontra, con la fiber art, un alfabeto duttile, straordinariamente vicino al suo sentire e al suo spirito contemplativo associato all’urgenza dell’impegno tecnico, di bottega, come fu per gli antichi maestri, secondo i quali la conoscenza delle discipline era un tramite indispensabile per tradurre ciò che l’anima e il cuore suggerivano. Ma per Valeria Scuteri l’esercizio della manualità assume oggi un valore diverso e allegorico, e la scelta pratica e concettuale del telaio come strumento creativo, diviene, in un contesto storico dominato dall’informatizzazione, un gesto mirato e fondamentalmente distintivo; un veicolo assolutamente complementare alla gestazione dell’idea che prende corpo nel suo lavoro con lo studio meticoloso dello sviluppo e della risoluzione formale in cui nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione dell’effetto gratuito, allo svolazzo decorativo. Ogni filo, ogni scelta cromatica, ogni intreccio, ha una sua personalità e un suo quasi matematico rapportarsi al tutto, alla coralità esecutiva dell’intera opera.

Il telaio diviene allora per lei un simbolo preciso per ribellarsi al caos con il ritmo serrato del lavoro e della quiete, una sorta di filosofico rifugio per trovare la solitudine illuminata dal pensiero, e di lì poter guardare con occhi diversi le molteplici sfaccettature di un quotidiano non sempre in sintonia con la vibrazione interiore. Un atteggiamento quasi gandhiano, se si guarda in particolare a uno dei tanti significati che il grande leader politico e guru indiano attribuì alla tessitura, cioè quello di un valore intrinseco di calma psicofisica, adatta al pacifico recupero di una dimensione umana irrinunciabile per l’armonia individuale e quindi collettiva.

La passione per il telaio matura in Valeria Scuteri negli anni dell’infanzia, quando nella natia Calabria ha ancora modo di osservare le ultime generazioni di donne intente a tessere, immagini di un mondo oggi perduto che ha custodito nel cuore. Figure femminili operose e pazienti, forti, consuetamente capaci di lunghe attese: dei mariti fuori con le barche, dei figli emigrati, di un nuovo giorno nella speranza che sia migliore. Immagini che hanno le sembianze della Penelope d’ogni tempo, che lei ha serbato nell’anima e nella mente per ripensarle e maturarle fino a trasformarle in arte. Ricordi riaffiorati in questa sua fase di ricerca, insieme al tradizionale tessuto popolare di ginestra uscito dall’armadio ancora odoroso delle erbe di cui è composto, che ha manipolato e trasformato in un abito-opera, ora parte dell’installazione “Il tempo da riempire”.

Nasce da queste premesse e da un complesso lavoro progettuale la mostra “Canto di donna, canto di telaio”, che nel riassumere il precedente viaggio intorno all’uomo, inteso come analisi della sfera intimistica maschile, ne apre un altro - questa volta femminile - esplorato con il gioco dell’antitesi che le permette spostamenti di tempo e spazio, da una dimensione all’altra, dal vissuto individuale alla memoria collettiva, dal reale al fantastico, dal descrittivo all’astratto, dalla ricerca dell’io fino all’universale. E per portarci nella sua storia, in parte autobiografica, altre volte immaginaria, questa raffinata artist wever italiana, pone grande attenzione allo stretto rapporto tra forma e contenuto. Sintetizza la classicità secolare del telaio, e la traduce, con metodi d’artista, in un fare nuovo e sperimentale. Semplicemente smantellando un grande quadro dalla tela, ottiene allora un “telaio libero” con cui, servendosi di fili di ferro e di rame (questi ultimi, elementi portanti della sua più recente produzione) sviluppa una tessitura elementare di trama e ordito in grado di dar vita a sculture a tutto tondo e installazioni dominate dalla forza del pathos coniugato alla straordinaria bellezza e al forte impatto visivo ed emotivo. Effetti scintillanti e gioiosi, oppure più pacati e sognanti o ancora percorsi da una malinconia beaudleriana, rappresentano infatti la sua tavolozza di fili nei quali impiglia la magia di racconti che vogliono ricondurre ad un altro punto chiave interpretativo di questa mostra: la favola intesa nel suo senso immaginifico e nel suo significato di metafora della realtà. Una realtà che le ha ispirato il tema guida da cui è partito l’intero corpus di lavori: l’horror vacui, scandagliato dal punto di vista del tempo che lei afferma essere “un tempo da riempire che ci è stato dato a prestito con restituzione senza preavviso. Ma anche consapevolezza della memoria che resta e sconfigge il suo scorrere”.

Apre perciò la rassegna l’installazione intitolata “Il tempo da riempire”, uno “stendino” a cui ha appeso un’intera collezione di abiti di taglia piccola, quasi da bambina, realizzati ad uno ad uno per questa sua donna immaginaria che esiste e non esiste, una sorta di proiezione di se stessa, un po’ la materializzazione di un sogno da vivere con la libertà della mente. Per questo lavoro, in cui sfilano maglioncini, golf, biancheria intima, tailleur, camicine, e quant’altro rappresenti il guardaroba femminile, mette a frutto, con esiti e interpretazioni del tutto personali, la lezione dell’artista americana e leader di un movimento femminista Miriam Shapiro, che nella prima metà degli Anni Settanta, cercò di ridare dignità artistica al ricamo, al lavoro a maglia, al cucito.

Valeria dunque utilizza i ferri, l’uncinetto, trascorre pazientemente le ore con ago e filo, ma soprattutto tesse. Tesse con grande fatica e impegno chilometri di fili di ferro con i quali riesce a dar corpo alla sua donna che si presenta vestita con materiali comuni, perché - spiega ancora l’artista - “comune è il destino dell’umanità”.

Certamente sensuale, carica di quella vitale seduzione che esorcizza la morte, è la magnifica installazione rossa “Il riscatto della bellezza”, un tripudio di passione e joie de vivre, fiammeggiante abito-oggetto cui ruotano intorno, sospese nello spazio, scarpe coloratissime, non indossabili, create per far sognare il bello fuggente e la leggerezza dell’esistenza.

Sono arte da indossare i cappellini multicolori creati dalle sue mani per vivere nel quotidiano, fuori dai luoghi istituzionalizzati dell’arte, svincolati però anche dalla moda rispetto alla quale nulla hanno a che fare se non per qualche ascendenza stilistica, capaci di ricevere, nell’essere indossati, valenze nuove, quelle di chi li porta cercando la poesia e la fantasia nell’esistenza di ogni giorno.

Si protrae per un annunciato abbraccio l’installazione totalmente bianca (appena un motivo nero interrompe l’effetto argenteo) intitolata “Saprà, per amore, ricomporsi”, creatura mezza donna e mezza dea, le cui sembianze sembrano materializzarsi e riprendere forma dal quel mondo greco che, insieme al mare e alla mediterraneità, è per Valeria Scuteri una seconda anima. Evoca infatti la Nike di Samotracia questa scultura come plasmata dal vento, che preme i fili e li drappeggia similmente a tessuti panneggiati su un ventre morbido, al contempo botticelliano e caldo, adatto alla maternità. Tuttavia non è il citazionismo a interessare l’autrice, che caso mai rende omaggio al passato, e per goderne appieno lo proietta nel futuro. Ne sono affascinanti esempi “Gotico chierese. Il passato è il m io presente” e “Barocco chierese. Il tempo del vissuto”: due omaggi alla città che ospita la sua mostra nelle sale trecentesche del Palazzo Opesso. Le passamanerie di produzione dell’azienda chierese Tosco, qui reinventate, diventano così moderne nervature dell’abito cupola in onore della volta del battistero in duomo, mentre la linea serpentinata, il capriccio e l’opulenza barocche, assumono le forme di un sofisticato abito-colonna. Studiando Chieri, Valeria Scuteri annota infatti: “Voglio gustare, appropriarmi e interiorizzare linee e colori, lasciandomi prendere dalla preziosità dell’oro e del blu cobalto che richiama Giotto nei miei pensieri. Il mio sarà un blu polveroso, smorzato, non ancora restaurato, come il tempo ce lo ha tramandato, carico del vissuto. Ricorderò il sudore degli uomini artefici del costruito, lavorerò idealmente accanto agli scalpellini, ai cesellatori e agli architetti; mischierò la mia storia con la loro e ringrazierò Chieri per avermi regalato quest’altro sogno, quest’altra fatica”.

Fluttua nello spazio, come immerso in un immaginario fondale marino, l’abito tessuto pensando al corallo e che dà il nome all’intera mostra “Canto di donna, canto di telaio”, inno alla gentilezza e alla grazia che si avventura fin nell’intimo femminile, rappresentato da due minuscoli tanga più simili a libellule che a oggetti d’abbigliamento. E ancora il mare e la fecondità sono protagoniste di un’altra scultura tessile fortemente concettuale “Il mare nella rete. “Abito-conchiglia”, tra le cui maglie le onde entrano senza mai farsi catturare, similitudine di libertà della mente che nessuno può imprigionare.

I profumi della Calabria, si raccolgono invece intorno all’ “Abito ulivo”. Il tempo non cancellerà le tracce”, certezza di una vita che continua e che il ticchettio dell’orologio non può distruggere. Dai resti del vecchio ulivo ormai secchi, si protrae infatti un ramo-cordone ombelicale, appiglio di nuove vite, speranze per nuovi cammini.

Forse trasportato dalle maree e lasciato sulla battigia deserta, è l’“Abito ficodindia. Dignità”, che racchiude, senza però chiudere, l’intera rappresentazione espositiva. Come il ficodindia che si caratterizza per una struttura a strati, e, una foglia dopo l’altra, tutte le ingloba lasciandole però trasparire, l’omonimo abito è stato costruito da Valeria Scuteri per sovrapposizioni trasparenti di diversi colori in grado di sintetizzare le altre opere, celandole senza coprirle, invitando a una lettura che non può fermarsi alla superficie, ma può e deve scendere a fondo, per scoprire sensazioni, conoscenze, rimandi colti.

Di certo quest’ultima opera è la summa di ciò che l’artista sa trametterci con il linguaggio universale dell’arte, per regalarci un sogno, per suggerirci che l’arte è vita e che la sua funzione, tra le tante teorie discusse e filosofeggiate, può essere ancora e sempre, interscambio, dignità umana, fuga dagli schemi.

Fluttuano nello spazio leggere come apparizioni le calze, la borsetta, il cappellino, l’abito la guepierre e il tanga, vezzoso e ammiccante, “Horror vaqui – accessori” richiamano ancora una volta al senso di una vita che non può essere cancellata dal ticchettio dell’orologio è l’installazione.